Sbirolo, l'esattore

03.06.2008

Mio padre faceva il commercialista, in un'epoca in cui questa professione non era né conosciuta né sovrastimata come oggi; da bambina, avere un papà che faceva un lavoro bizzarro mi creava spesso dei problemi relazionali: quando amicizie fortuite o nuove compagnie di scuola mi chiedevano cosa facesse di mestiere il mio babbo, rispondevo con sicumera: "Il dottor commercialista", al che loro indagavano sulla natura delle sue compravendite nel caso lo avessero annoverato fra i commercianti o sul significato intrinseco del termine nel caso in cui la parola non avesse loro evocato alcunché di conosciuto. A questi ultimi, pazientemente rispondevo che il commercialista è quello che tiene le contabilità, e in genere tale affermazione bastava. Per mia fortuna, perché non avevo assolutamente idea di cosa fosse una contabilità.

La sua era stata una vocazione; dapprima si era diplomato in ragioneria e poi, a soli ventidue anni, aveva raggiunto la laurea. Lo diceva con orgoglio, e con altrettanto orgoglio confessava di aver voluto subito tentare la libera professione senza indugiare in un posto comunale di cui aveva vinto il concorso: "Non sono fatto per prendere ordini", diceva. Ma non era un uomo rude, anzi; percorreva la vita con determinazione solo per quello che riguardava il lavoro, mentre nelle altre questioni sottoponeva tutto al vaglio della convenienza, intesa come personale e insindacabile metro di giudizio del suo benessere presente e futuro. Era dotato, per questo, di un innegabile fiuto: quando alla metà degli anni '30 cominciò a sentire odore di guerra, smise ogni velleità professionistica e si arruolò come ufficiale in Marina: "Vado a capitalizzare la fregatura" tagliò corto rispondendo alla nonna che lo interrogava sgomenta. E le spiegò che, se fosse stato richiamato come soldato semplice avrebbe al massimo potuto godere della gloria riservata ai reduci, mentre come graduato volontario gli sarebbe toccata anche una pensione.

Nonostante le mie dichiarazioni di bambina, mio padre faceva la professione tenendo pochissime contabilità: "Roba da segretarie" sentenziava un po' sprezzante. La sua grande passione era il salvataggio di aziende decotte, cariche di debiti, travolte dagli ammanchi; più una situazione gli appariva difficile, più vi si gettava a corpo morto, senza risparmiarsi. Qualche volta riusciva a strapparle al fallimento, più sovente doveva subire il naufragio dei suoi tentativi. Ricuperava allora quello che poteva, e casa nostra si riempiva di ogni sorta di mercanzie: "Sta fallendo, vuoi mica che gli chieda soldi, no?" rispondeva piccato a mia madre; lei annuiva sconsolata, e cercava di rinvigorire i sogni che aveva costruito quando lo aveva conosciuto intessendo avventure con altri; a un certo punto, trovata l'ennesima persona giusta, lo lasciò. Lui invece le rimase fedele tutta la vita, forse per amore, forse per pigrizia, forse per tutti e due. E rimase vicino, pur con tutto il riserbo piemontese di cui era intriso, anche a noi figli, accettando le parzialità e le preferenze che accompagnano ognuno di noi nel difficile sentiero degli affetti.

Mio padre non aveva alcuna predilezione per gli animali, e non ricordo di averlo mai visto accarezzarne uno; ma se l'avesse conosciuto, Sbirolo gli sarebbe piaciuto.

DUE ­

Era l'inizio di primavera; fu R., la nostra veterinaria, a parlarci per la prima volta di lui: "C'è un cane già anziano, a occhio di una decina d'anni... Ha vissuto sempre alla catena e poi, la prima volta che è riuscito a liberarsi, è andato sotto una macchina; ha un femore spappolato, inoperabile... È anche pieno di dermatosi, ma per quella lo sto curando: insomma, è un po' una schifezza, ma è tenero. Si tratterebbe di fargli passare qualche anno sereno... Se vi va, andate a vederlo, basta chiedere a S.". Ci andava, e chiedemmo a S., infaticabile sistematrice di animali sfortunati; lei ci provvide di una scatola di pappa ("Così, per ingraziarselo...") e dell'indirizzo cui recarci: "Come si chiama?", chiedemmo. "Non ha nome, Muret forse, nome comune di cane nero valsusino" la laconica risposta. Quando arrivammo, era accoccolato sotto una tettoia isolata; alzò appena gli occhi, gradì la pappa ma ancora di più coccole e carezze. Non furono necessari grandi abboccamenti o enfatiche dichiarazioni; guardammo lui, ci guardammo noi, e gli promettemmo solennemente che il giorno dopo saremmo tornati a prenderlo; lui capì, si sedette e ci lasciò fiducioso andare via: la dilazione serviva a S. per mediare con i proprietari della cascina che lo incarceravano. L'indomani mattina presto eravamo già lì, lui ci venne incontro camminando su tre zampe ("la quarta non potrà più metterla giù" ci aveva avvertito R.) e quell'andatura incerta ci suggerì il suo nome; lo caricammo in macchina con grande circospezione per non fargli male, e lo portammo alla strampalata, la casa dove abitavamo a Meana.

Voglio fare una digressione per perorare la causa degli animali anziani e abbandonati, cani o gatti che spesso non si riesce a risistemare perché la gente preferisce un cucciolo che poi magari getta via in fretta e furia quando scopre che il giocattolino rosicchia, piscia, sporca e uggiola; e quante volte, poi, questi reietti ormai adulti sono condannati a passare il resto della loro vita in canile... Bene, se devo ritrovare nella mia vita un'emozione capace di riverberare sempre e comunque felicità sul mio cammino inglorioso o di sostenermi nei momenti di difficoltà, mi basta rivedere lo sguardo di Sbirolo che ci accompagna mentre ci allontaniamo dal suo carcere dopo avergli promesso di tornare a prenderlo, uno sguardo pieno di fiducia, solidarietà, speranza. Non è mia abitudine fare della retorica a buon mercato, ma uno sguardo così prezioso lo può regalare solo un cane che abbia già vissuto, spesso in condizioni difficili, spesso conoscendo, dei bipedi parlanti, solo la parte peggiore: è un dono che ci si deve meritare, ma che accompagna e aiuta per sempre. Certo condividere la propria esistenza con un cane già adulto implica di accettarne il carattere ormai formato, reso a volte spigoloso dai perigli della vita, ma ha il sapore intenso della reciproca scelta, del patto stretto tra uguali, dell'innamoramento: credo che sia cosa per cui vale la pena di giocarsi un pezzo di esistenza senza rimpianti.

Ma torniamo a noi. Arrivati alla strampalata lo accompagnammo in giardino per una sommaria ricognizione e poi in casa. Volevamo mostrargliela nella sua interezza, ma lui, non appena entrato, si accoccolò davanti all'ingresso spiegandoci che, avendo sempre vissuto all'aperto, aveva bisogno di un po' di tempo per abituarsi alla nuova sistemazione. Il tempo era già tiepido, spalancammo la porta in modo che non si sentisse prigioniero, sistemammo una coperta e una ciotola d'acqua fresca sul pavimento, e lo lasciammo tranquillo; la tribù felina, allora composta di una quindicina di gatti, era infastidita dall'intruso inchiodato proprio accanto alla gattaiola, ma giudicò intempestiva un'immediata dichiarazione di guerra e temporeggiò scendendo in giardino dal balcone che attorniava la casa. Sbirolo si sistemò sospirando e si abbandonò a un sonno ristoratore; la sera mangiò di buon appetito, a dimostrazione del suo gradimento per la nuova situazione. Rimase davanti all'uscio; e quando scendevamo per coccolarlo e accarezzarlo, confermandogli che il nostro interessamento per lui non era passeggero, scodinzolava nel vederci. Col passare dei giorni la sua salute migliorava visibilmente, e quando ci sembrò un po' più saldo sulle tre zampe utili, cercammo di invogliarlo ad arrivare al primo piano; ma o la salita era ancora troppo faticosa per lui, o non era ancora pronto al passo che gli sembrava dovesse sancire il suo definitivo insediamento alla strampalata, fatto sta che dopo i primi gradini lui si voltava a guardarci chiedendo aiuto per ridiscendere: lo riaccompagnavamo al suo giaciglio davanti alla porta rassicurandolo che avremmo aspettato senza fargli fretta; e un giorno, percorsa finalmente la rampa di scale, si presentò in soggiorno. Sapevamo che non avremmo avuto difficoltà con gli altri abitanti della casa: la tribù felina, non appena accortasi dell'andatura periclitante di Sbirolo, aveva smesso ogni precauzione e velleità bellica giudicando il nuovo arrivato indegno anche della minima considerazione, mentre sul versante canino, in quel periodo, condividevano la nostra vita due femmine, Trippa e Lila; un maschio per di più infermo non poteva causare alcun problema: infatti, discussa velocemente tra loro la dislocazione di ognuno, iniziò la convivenza.

TRE ­

Una volta conquistato il primo piano fu più facile anche per noi cominciare a conoscere Sbirolo; immediatamente ci colpì da un lato il suo carattere introverso, la tranquilla ricerca di solitudine non per fuga dagli altri ma per consuetudine a ragionare con se stesso e dall'altro la felicità con cui apprezzava le nostre coccole, la pudicizia con cui cercava di imitare Trippa nell'istigarci alla carezza voltolandosi sul fianco anziché sul dorso e agitando una zampa per implorare più che per imporsi all'attenzione. Era continuamente alla ricerca dell'affettuosa considerazione che aveva solo potuto immaginare nei suoi sogni e che conosceva realmente forse per la prima volta; l'infermità gli pesava unicamente per la difficoltà che gli causava nell'accorrere al nostro arrivo per carpire le carezze che comunque noi non lesinavamo, ma che erano sempre insufficienti ad appagarlo. Fu proprio questa sua incontinenza affettiva che ci fece intuire come Sbirolo avesse impiegato i lunghi anni trascorsi alla catena: gli erano serviti per compilare accurati regesti mentali dove aveva meticolosamente annotato tutte le coccole cui avrebbe avuto diritto ma che gli erano state negate dalla sfortunata contingenza in cui si trovava a vivere; era giustamente convinto che al momento opportuno, ­e questo era arrivato,­ a fronte di un'esatta contabilità del suo credito, bipedi meno indegni di quelli con cui aveva avuto fino ad allora a che fare non avrebbero potuto che risarcirgli il dovuto. Se fino ad allora tutta la sua vita era scivolata nell'attesa, anche lui aveva trovato il modo di "capitalizzare la fregatura" in maniera certo meno prosaica di quella arguita da mio padre, ma non per questo meno efficace.

Più passava il tempo, più aumentava la confidenza tra noi e lui, e più il suo metodo di riscossione del debito si affinava. L'iter esattoriale iniziava quando scendevamo la mattina: sentendo il nostro passo sulla scala, si alzava faticosamente dall'ingombrante divano dove soggiornavano gli animali (perciò chiamato l'inglobapelo) e si piazzava di traverso davanti a noi, di norma in un passaggio non più largo di un metro, per esigere un primo acconto di quello che la consultazione notturna del libro mastro gli aveva indicato come il rateo da incassare per quel giorno: era stupefacente come, nonostante le difficoltà di equilibrio che lo perseguitavano, una volta drizzatosi sulle tre gambe per una sconosciuta quanto reale legge fisica di addensamento della materia il corpo di Sbirolo si fossilizzasse nel posto esatto dove aveva deciso di riscuotere il pagamento: da lì diventava impossibile schiodarlo senza fargli male se non quando l'anticipo del quotidiano debito di coccole fosse saldato. Qualsiasi avvenimento fosse intercorso in quel lasso di tempo, crolli di mobilio, risse sanguinose, principi di incendio, se la posizione di Sbirolo ci impediva di intervenire diventava insanabile: prima si finiva di pagare e poi ci si dava da fare per salvare il salvabile. E così, durante tutto il giorno, ogni occasione era buona per lui per presentare un conticino, e per noi per azzerare un residuo di cui non potevamo indovinare l'esistenza ma che ci affrettavamo a pagare, certi dell'esattezza dei registri sbiroliani: ci si presentava improvvisamente davanti, alzava il muso dolcissimo, e aspettava granitico senza muovere un pelo; noi saldavamo senza discutere, contenti della sua continua considerazione. Indubbiamente era stata una fortuna per noi che la sua attitudine matematica gli avesse suggerito l'uso della rateizzazione, e addirittura del frazionamento nell'arco della giornata; ma alla sera il conto doveva tornare per permettergli di stornare senza recriminazioni la quota relativa alla data: e se la somma non quadrava, veniva a cercarci per un ultimo aggiustamento contabile per poi ritirarsi soddisfatto.

Quando non era impegnato nella riscossione degli arretrati, Sbirolo continuava nelle sue meditazioni, si appartava sul balcone, raramente interloquiva con la tribù e ancor più raramente con Lila e Trippa; si capiva che stava facendo un attento bilancio del cambiamento intercorso nella sua vita, e che assaporava la sua nuova esistenza a piccole dosi, quasi temendo che la sua serenità potesse sfumare. Sembrava che nulla potesse più scuoterlo dal tranquillo tran tran cui andava lentamente assuefacendosi, e invece un uragano di emozioni stava per sconvolgere il suo orizzonte.

QUATTRO ­

So di confessare una cosa che mi screditerà agli occhi di molti, ma mentre posso accogliere qualsiasi gatto decida di onorarmi della sua presenza, con un cane deve scattare qualcosa di più, un reciproco riconoscimento, una complicità: fu il caso, oltre che di Sbirolo naturalmente, di Sandy. Avrò occasione, forse, di raccontare i particolari di quello che fu il nostro incontro. Qui basti sapere che era una cagnotta di neanche due anni ammalata di rogna demodettica, malattia comunque curabile e non contagiosa, ma per questo condannata da incompetenti quanto crudeli veterinari di un canile municipale ad essere soppressa; R. la salvò prendendosela in carico; poi, mentre la curava, cominciò a cercarle una sistemazione. Da lei la incontrai la prima volta, incrociandone gli occhi mentre era al guinzaglio di una ragazza che la portava a spasso; era bastato quello sguardo a far scattare il corto circuito tra noi, e da quel momento sapevo che era un cane che poteva essere mio; facevo resistenza, però, perché avevamo da poco accolto Sbirolo; e perché era una femmina e ne avevamo già due in casa. Non mi dilungo sulle vicissitudini della sua sistemazione, ma a un certo punto ci venne chiesto di parcheggiarla per qualche giorno alla strampalata: non appena Sbirolo la vide se ne innamorò. La guardava di sottecchi, vergognoso della sua infermità, si odoravano, lei cercava di farlo giocare e lui non poteva rincorrerla: c'era, nel suo sguardo, la felicità e lo strazio, il desiderio e la rinuncia. Mentre Sandy stava da noi, continuavamo a curarla, e vedendo che la rogna regrediva, le zampe le si sgonfiavano, il pelo cominciava a ricrescere non avevamo più cuore di lasciarla a cure altrui, anche se lei non era un cane esattamente adatto alla nostra situazione: inseguiva i gatti, metteva il naso dappertutto, non sopportava Schina, il cane di mia figlia. Ma ormai, in un modo o nell'altro, era nostra. Quando guarì del tutto andò in calore: Sbirolo comprese che si giocava la sua felicità, e provò a coprirla rimanendo in bilico su una zampa sola: non funzionò. Con uno sforzo erculeo mise giù anche quella che non avrebbe più potuto stendere; e funzionò. Si amarono appassionatamente per tutta la durata del suo estro; informammo R. dell'idillio in corso; lei sorridendo magnificò la potenza dell'amore e degli ormoni, ma decise di sterilizzare Sandy non appena avessero finito di divertirsi; nessuno di noi poteva farsi carico della cucciolata.

Così Sbirolo riprese ad usare anche la zampa offesa, e questo fu il regalo che Sandy gli fece; da parte sua, lui le donò un amore continuo, senza ombre o ripensamenti. Non andò mai in cerca di altre cagnotte, lui che comunque era un maschio intero che come tale aveva dimostrato di sapersi ben condurre; anzi, difese l'onore della sua amata tutte le volte che un altro cane, per qualsiasi motivo, la avvicinava: l'estate successiva, quando i soliti problemi finanziari ci avevano indotto a fare un po' di pensione per animali alla strampalata, A. si era beccato un morso dividendolo da Buk, un aitante pastore tedesco che soggiornava a pagamento e aveva avuto l'ardire di annusarla.

Anche Sandy voleva bene a Sbirolo, ma la sua natura allegra rendeva il suo amore meno profondo, più aereo: alcuni anni dopo, cambiata residenza e archiviato non senza sgomento il nostro sogno, una pausa dai tormenti economici che ci affliggevano ci consentì di passare qualche giorno in vacanza. Essendo contagiati dalla sindrome della chiocciola, A. e io non concepivamo la possibilità di spostarci senza una casa, ancorché minuscola, appresso: può essere una barca, un camper, una roulotte, non importa; per l'occasione, volevamo collaudare un vecchio furgone che ci era stato gentilmente regalato e che avevamo sommariamente attrezzato per la bisogna. E dato che per noi una casa non è tale senza animali, ci interrogavamo su chi portare; stante che il vettovagliamento tribale era come al solito affidato all'amorosa gentilezza di F., non vi era dubbio che Sandy dovesse accompagnarci, vista l'incompatibilità di carattere tra lei e Schina. Ci chiedemmo allora se portare anche Sbirolo con noi, ma considerando i problemi di salute che l'età avanzata cominciava a causargli, le sue difficoltà di deambulazione, e soprattutto la sua indole meditativa ritenemmo che il chiasso e i cambiamenti repentini che avrebbe dovuto affrontare seguendoci sarebbero stati più una fatica che una gioia per lui: così lo lasciammo a casa. Gli elargimmo coccole per alcuni giorni, F. si incaricò di saldare i debiti successivi, lui capì, ci salutò e da buon cane giudizioso si apprestò ad attenderci. Sandy, felice e preoccupata delle novità in atto, non gli badò troppo. Ci narrò F. che i primi giorni era rimasto tranquillo; poi la nostalgia lo aveva aggredito e passava buona parte della notte a uggiolare sconsolato. Credo che solo il diffuso amore per i quadrupedi che fortunatamente aleggia su tutta la borgata dove abitavamo ci abbia permesso di non subire pericolose ritorsioni. Quando tornammo, lui era nel fienile, pensieroso, e non si accorse subito del nostro rientro; Sandy invece, non appena scesa dal furgone, si precipitò a cercarlo e, scovatolo, lo leccò amorosamente sul muso per salutarlo: anche lei, se pur in modo meno evidente e loquace di Sbirolo, aveva sentito la sua mancanza. La notte la borgata poté nuovamente dormire tranquilla.

EPILOGO ­

È un anno ormai che Sbirolo ci ha lasciato, e sono dieci che mi ha lasciato mio padre; se ne sono andati tutti e due d'estate, senza clamore, terminando la loro vita obbedienti al percorso intrapreso, fedeli ai loro ricordi e alle loro manie, in ordine con le difficili partite doppie della vita. Se quando li penso sono assalita da un'identica mestizia è perché il loro destino, così tranquillamente delineato se confrontato con le tortuosità che hanno segnato il mio incedere, mi appare come una strada che non ho saputo scegliere: riuscissi, in questo scorcio della mia esistenza, a trarre profitto dalla loro avventura, forse potrei arrivare anch'io all'ultimo istante chiudendo i libri contabili della mia vita in pareggio.

Ritirato, solitario, dedito  soltanto alle mie piccole indagini, infruttuose  ma  per me indispensabili, così vivo (Franz Kafka, Indagini di un cane

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