Philip Roth

23.05.2018

Ho saputo della sua morte, e mi sono sentita spaesata, più sola. Ho acceso la radio e, miracolo, trasmettevano la settima di Beethoven; per il mio sentire, uno dei pezzi più "rothiani" che esista. Nella mia limitatezza, mi rendo conto che il mio approccio all'arte non muta col cambiare degli strumenti che la esprimono: è sempre e comunque la ricerca del "racconto" che si cela nei colori di un quadro, tra i paragrafi di un libro, nelle pause di una musica. E questo racconto narra la nostra impossibile lotta per capire, per tenere insieme i pezzi nostri con quelli del mondo, per vaticinare il futuro che non ci sarà dato. 

La scrittura ironica, dolente e veritiera di Roth è, in qualche oscuro modo, sorella della malinconia siderale del secondo movimento della settima; la sua rabbiosa capacità di rovistare fra i limiti della propria anima per consentirci di affacciarsi su quella del mondo, la sua furiosa oltranza nel descrivere il "male di vivere" delle sue divinità marginali sono, nel mio animo, accompagnate dalla sfrenata galoppata verso il nulla che scandisce l'ultimo movimento della sinfonia. Si fermano ambedue, lo scrittore e il musicista, sul limite estremo del rappresentabile, dell'udibile; e ci fanno intravedere l'impossibile transito verso una verità che muta come il disegno delle nuvole allo spirare del vento, ma che ci è necessaria come la pioggia che esse stesse, instancabili, trasportano.

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